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Wednesday, February 23, 2011

Manuale D'Amore 3 (2011)di Giovanni Veronesi

POSTATO SU
Lo so perchè siete venuti a leggere questo post. Per avere risposta alla domanda "E' riuscito Robert De Niro a denirizzare la commediola italiana o è stata questa a cinemaitalianizzare De Niro?". La risposta in fondo al post. Intanto voglio parlare di Scamarcio.

Quello di Scamarcio è infatti il primo segmento di Manuale D'Amore 3, come al solito un film a tre episodi stavolta uniti dalla narrazione di Cupido, il tassista arciere, una figura il cui senso è davvero sfuggente. Il segmento giovane è quello che rivela con maggiore chiarezza i limiti di Giovanni Veronesi e come mai i suoi film siano dimenticabili e poco convincenti.
La storia dell'avvocato di città che va nella provincia toscana a cercare di convincere dei contadini a vendere il loro terreno ad un'impresa che ne farà un campo di golf, sarebbe anche carina, ci sono spunti abbastanza divertenti e quell'ambientazione è il cavallo di battaglia di Veronesi già dalle collaborazioni con Pieraccioni (si ritrovano tutti i topoi dal matto del paese agli scherzi e la goliardia). Ma è quando il film cerca di essere di più, di mantenere la promessa del titolo ed essere romantico che la barca affonda senza speranza a causa di una pessima mescolanza di toni. Non sono infatti tanto la poesia d'accatto o le intense espressioni intense, quanto le subitanee ed improvvise accelerazioni verso il sentimentale, totalmente fuori posto e mal accostate a momenti di commedia, che generano il ridicolo.

Stessa cosa nel segmento di Carlo Verdone, che dei tre è quello più godibile per le improvvisazioni e le estemporanee battute di Verdone, piccole chicche da mestierante della battuta. Il resto è piattume, come il manicomio pieno di matti bellissimi ed estremamente creativi. Non ci potevo credere ma ce n'è addirittura uno alle spalle dei protagonisti che dipinge un olio su tela, un mare in tempesta....
Anche lì il modo in commedia e sentimento si uniscono rende tutto poco credibile e coinvolgente perchè si passa dall'uno all'altro senza che i loro toni si mescolino ma semplicemente accostandoli.

Ultimo arriva il segmento di Robert De Niro, Monica Bellucci e Michele Placido (che ha l'onore di mettere le mani al collo di Bob). Il senso di straniamento è forte. E sebbene negli ultimi anni ne abbiamo visti di filmacci a cui ha preso parte l'ex grande attore, qui si toccano nuove punte. Come la scena in cui va a fare jogging sembrando Benny Hill o il pessimo green screen dei fuochi d'artificio o ancora la scena in cui lavora con il portatile sui resti del foro romano (?!?!!).
Più che usare De Niro in quanto tale, con la sua tecnica, il suo modo di fare ed interpretare il cinema, Veronesi l'ha piegato e abbassato al livello del suo film. Lo si vede nelle sue narrazioni fuoricampo in inglese o nelle mossette da italiano, tutto lo porta ad essere al livello dei bravi attori italiani coinvolti in questi progetti e non l'elemento esotico e magari nuovo che poteva essere. Unica eccezione i suoi intensi primi piani intensi, che se non altro sono intensi per davvero.

Wednesday, December 30, 2009

Io Loro e Lara (2009)di Carlo Verdone

POSTATO SU
La carriera di Carlo Verdone ha smesso di essere cinematograficamente interessante da tempo, tuttavia negli ultimi anni la storia produttiva dei suoi film ha sostituito (per interesse) i film stessi.
Nel 2006 all'annuncio di Il mio miglior nemico dichiarava di aver cambiato produttore, dopo decenni con Cecchi Gori passava a De Laurentiis perchè si sentiva tarpato, voleva più libertà e soprattutto più respiro internazionale che pensava la nuova società gli avrebbe garantito. Quasi 4 anni e un Grande Grosso e Verdone dopo dichiara di passare alla Warner perchè De Laurentiis non fa per lui, è eccessivamente pressante con la sua mania di controllare e (ma questo lo aggiungo io) non si è visto uno straccio di distribuzione internazionale, solo una qualità tecnica delle pellicole in picchiata verticale.

Oggi con Warner dichiara di voler fare un cinema diverso, più personale, lontano dalle solite figure borghesi, più morale, etico e via dicendo. E poi magari cercare una distribuzione internazionale. Io Loro e Lara è stato già sottotitolato e, fa sapere la Warner in persona, presto verranno i colleghi delle altre nazioni a visionarlo.
Quello che si troveranno davanti è un film girato maluccio (non peggio dei film delaurentiisiani che quelli non li batte nessuno ma di certo peggio di quelli cecchigoriani) e anche scritto male, che affoga nel buonismo una trama piena di assurdità che affianca scene, elementi e avvenimenti senza che stringano una relazione di causalità plausibile, adoperandosi con cattiveria solo nei confronti delle figure già deprecabili (cocainomani arrivisti, ipocriti e via dicendo). L'unica cosa positiva, come è sempre stato, è lui, Verdone. Solo lui ha delle trovate (improvvisate e non di sceneggiatura) che siano divertenti e solo lui ha un personaggio degno di questo nome, dotato di un conflitto interiore, di sfumature e teso verso il raggiungimento di qualcosa.

Attorno a lui ci sono non-personaggi, macchiette buone a fare delle gag ma inadatte a reggere un film. Se c'è un certo impegno nel trattare di striscio la crisi della fede, l'umanità dei preti e la difficoltà di operare nella realtà dei fatti (argomenti visti e trattati con una struttura di racconto curiosamente identica a quella di La Messa E' Finita) qualsiasi altra cosa è passeggera, come purtroppo alla fine è anche il film.
Verdone dice che si tratta del primo prete della sua carriera, perchè gli altri erano caricature, tic di un clero vetusto eppure quando in certi momenti rispolvera quelle movenze caricaturali si intravedono le uniche possibilità di ancorare il discorso alla realtà. Per il resto il personaggio di don Carlo è un uomo con un abito da prete e mai un prete che è anche e soprattutto un uomo normale come vorrebbe il regista.

Monday, March 30, 2009

Gli Amici Del Bar Margherita (2009)di Pupi Avati

POSTATO SU
Se fossi uno straniero dalla media conoscenza cinematografica internazionale e mi facessero vedere Gli Amici Del Bar Margherita penserei subito che l’Italia è rimasta ancora vittima del modo di procedere felliniano senza però che sia presente anche quella forza dirompente, senza che ci sia ancora quell’incredibile coraggio d’osare.

Tuttavia non essendo straniero ma italiano e conoscendo da italiano il cinema contemporaneo non solo so che non siamo vittime dell’imponente retaggio felliniano ma anche che le somiglianze evidenti tra l’approccio al ricordo bolognese di Avati e quello al ricordo riminese del Federico nazionale è un’eccezione spiacevole che spero avremo tutti il coraggio di ignorare.
Perchè Pupi Avati gioca con i suoi ricordi (e molti degli attori da lui lanciati) tra esagerazione, caratterizzazione, bozzettismo e grottesco senza mai davvero andare a fondo, senza un immaginario degno di questo nome a coprirgli le spalle e riempirci gli occhi, senza guizzi sorprendenti e senza storie realmente interessanti da raccontare ma solo piccole bagatelle e piccoli screzi.

Si direbbe un film corale ma in realtà non è nemmeno questo perchè dalle tante storie raccontate degli avventori del bar Margherita non esce nulla di unico, non si respira un senso comune del vivere bolognese nel 1954, sono solo storie sfilacciate tra di loro e tenute insieme dall’unità di luogo.

Avati è un cineasta particolare, uno che per sua ammissione non va quasi mai al cinema e in generale guarda pochissimi film e che per questo ha tutta una sua idea di cinema dotata di poca originalità e soprattutto sempre uguale nel tempo. Un cineasta quindi proprio per questo motivo fuori dal tempo che ha il pregio di fare un film l’anno ma il difetto di mancare ogni volta l’appuntamento con personaggi e situazioni realmente coinvolgenti.

Giusto per amor di completezza una citazione in chiusura va al senso della pellicola e del cinema avatiano espresso nel finale, cioè quel rifiuto di far parte di una storia per prendersi il lusso di guardarla da fuori, raccontarla per comprenderla. Anche stilisticamente il regista si immedesima con il personaggio del documentarista (spesso le immagini che vediamo sono prese dal punto di vista da cui quel personaggio gira) e dunque contemporaneamente prende le distanze dalla materia raccontata e ne diventa parte integrante. Ma come si diceva lo precisiamo solo per amor di completezza e non per reale interesse.

La cosa che più mi infastidisce è che il film sarà dai più salvato nel nome di non ho capito quali pregi e quali interessanti risvolti di trama.

Monday, February 23, 2009

Iago (2009)di Volfango De Biasi

POSTATO SU
Non che non si possa rifare Otello, diciamolo subito, e nemmeno che non si possano adattare i grandi classici ad un cinema popolare, centrato più sulla trama che su altro. Anzi! Forse le opere di Shakespeare sono le più adatte ad un simile lavoro perchè dotate di intrecci formidabili e archetipici al tempo stesso, opere così forti da resistere anche alle molte storpiature. Ma De Biasi ce l’ha messa tutta.

Iago tenta un’opera di riscrittura ispirandosi (con vaghezza crescente a mano a mano che ci si approssima al finale) all’Otello originale per parlare di ambizione. E’ Iago la vittima in questa visione del dramma, perchè amava Desdemona e Otello gli ha soffiato donna e ambizioni professionali.
Una variazione sulla carta interessante per una dinamica nei secoli diventata anche abbastanza trita. Ma il grande errore del film è di prendersi eccessivamente sul serio e di puntare troppo in alto. De Biasi vuole tirare le fila del senso stesso dell’essere ambiziosi come Shakespeare faceva con la gelosia. Iago distrugge tutto per amore di Desdemona e di se stesso, per rabbia e per desiderio di aspirazione sociale (tutti fanno architettura ma al contrario degli altri Iago è povero e idealista, è più bravo degli altri, lo sa e intende arrivare in alto).

Se non bastassero dei presupposti eccessivamente ambiziosi ci si mette la realizzazione a creare dei veri problemi. Un film recitato tanto male quanto Iago non lo si vedeva da tempo e la scelta luhrmaniana di contaminare la sceneggiatura moderna scritta per l’occasione con un linguaggio aulico e alcune frasi o richiami al copione originale è deleteria in questo senso. Nemmeno Gabriele Lavia si salva nello sconcerto generale.
Volfango De Biasi predilige le metafore (anch’esse spesso prese dal Romeo + Juliet di Luhrmann come la festa in maschera) e caricando la messa in scena di simboli, ma ognuno di questi è ripreso e trattato con un’enfasi esagerata che ne rivela l’inconsistenza di fondo.

La composizione delle inquadrature è spesso disarmante, gli attori sembrano disposti casualmente e ignari di come e dove debbano posizionarsi. Il montaggio, specialmente nei dialoghi e quindi nel classico campo/controcampo, è assolutamente dilettantesco e non si capisce come mai nessuno abbia fatto qualcosa per impedirne l’approvazione finale.
Neanche la colonna sonora si salva. Incerta tra sottolineature drammatiche e autoironia la musica è usata in uno dei modi peggiori che si ricordino.

Normale a questo punto che dati simili presupposti ogni cosa risulti ridicola. Vaporidis che elogia la propria intelligenza parlando tra sè e sè, i vestiti palesemente caricaturali, i molteplici finali (ma chi ha approvato??), i mantelli che svolazzano nella notte e tutta quell’aria da trasgressione da tinello che pervade il film.