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Friday, April 15, 2011

Limitless (id., 2011)di Neil Burger

L’ultima pillola in grado di cambiare la vita che si ricorda nella storia del cinema era rossa. O blu. A seconda della scelta. Ora la pillola al centro di Limitless è bianca ed ha un nome da farmaco (sebbene non sia proprio una di quelle medicine che si comprano con ricetta): MDT.
L’MDT amplia di colpo le tue capacità celebrali ma non si tratta di nulla di soprannaturale, anzi. Una sola dose fa in modo che per poco meno di 24 ore il cervello sia in grado di organizzare tutte (ma proprio tutte!) le informazioni che già possiede in maniera efficiente e quindi a metterle in connessione per trovare nuove risposte. Significa risolvere un problema mettendo insieme un pezzo di telegiornale sentito a 5 anni, una pagina di libro letto di sfuggita in libreria e parte di una lezione ascoltata distrattamente all’università. Ma significa anche imparare molto più velocemente e con più efficacia e avere una visione chiara di tutto quanto. In pratica l’uomo più intelligente e svelto che sia mai esistito. Senza contare l’effetto che tale intelligenza ha sulle donne.
Ovviamente l’MDT ha qualche lieve effetto collaterale. Se esageri muori, se smetti, muori.

Il film di Neil Burger viene da un libro (The Dark Fields di Alan Glynn) e si vede, nel migliore dei sensi. Il modo di raccontare e di procedere del film prende dalla letteratura le sue componenti migliori. Personaggi raccontati a fondo, situazioni originali e ben delineate, eventi a cascata ed incastro, uno sviluppo coerente e dettagliato fin nel minimo particolare e personaggi di contorno degni di nota (il mafioso violento e ignorante sotto MDT è impagabile!).
La vera ciliegina sulla torta però è il protagonista, lo scrittore fallito che non sfrutta il suo potenziale e diventa il migliore degli uomini possibili (“Funziona bene con chiunque ma funziona meglio se sei già sveglio di tuo” gli dice l’orrido ex cognato prima di dargli la prima pasticca). Il drogato di MDT che ha un progetto più grande degli eventi che vive ma che rischia di non vivere abbastanza o di non avere sufficiente MDT per realizzarlo.
Bradley Cooper, trova il suo ruolo perfetto, battaglia con De Niro suo rivale/socio in affari (“Non sarai mai meglio di me perchè non hai dovuto leccare ogni gradino della scala da salire o sposare la donna sbagliata con il padre giusto per arrivare fin qui!”) e quando prende le sue pillole, l’otturatore della macchina da presa si apre saturando i colori e diventa la quintessenza dell’uomo moderno, dal pieno controllo di sé e del suo destino. Almeno fino alla prossima dose.

Inoltre Limitless merita una visione per come sia un segno ulteriore dell’ingresso (finalmente!) in una nuova fase della fantascienza (questa volta il termine è proprio da intendere in senso letterale), quella dell’era di internet, in cui la tecnologia e il modo in cui l’uomo è visto in relazione ad essa sono figlie del digitale.
L’organizzazione dell’informazione è il problema principale dell’essere umano in Limitless ed è noto che è il problema principale di internet, la rete delle reti che funziona come un cervello in cui ogni punto (o peer) è come una sinapsi e in cui c’è tanta di quell’informazione che la questione non è la sua esistenza quanto la sua effettiva reperibilità.
Pensiamo sempre ad internet con la metafora del cervello. Limitless pensa al cervello applicando la metafora della rete e delle sue informazioni, cioè spiega l’umano attraverso il tecnologico. Esattamente il lavoro della migliore fantascienza.

Wednesday, February 23, 2011

Manuale D'Amore 3 (2011)di Giovanni Veronesi

POSTATO SU
Lo so perchè siete venuti a leggere questo post. Per avere risposta alla domanda "E' riuscito Robert De Niro a denirizzare la commediola italiana o è stata questa a cinemaitalianizzare De Niro?". La risposta in fondo al post. Intanto voglio parlare di Scamarcio.

Quello di Scamarcio è infatti il primo segmento di Manuale D'Amore 3, come al solito un film a tre episodi stavolta uniti dalla narrazione di Cupido, il tassista arciere, una figura il cui senso è davvero sfuggente. Il segmento giovane è quello che rivela con maggiore chiarezza i limiti di Giovanni Veronesi e come mai i suoi film siano dimenticabili e poco convincenti.
La storia dell'avvocato di città che va nella provincia toscana a cercare di convincere dei contadini a vendere il loro terreno ad un'impresa che ne farà un campo di golf, sarebbe anche carina, ci sono spunti abbastanza divertenti e quell'ambientazione è il cavallo di battaglia di Veronesi già dalle collaborazioni con Pieraccioni (si ritrovano tutti i topoi dal matto del paese agli scherzi e la goliardia). Ma è quando il film cerca di essere di più, di mantenere la promessa del titolo ed essere romantico che la barca affonda senza speranza a causa di una pessima mescolanza di toni. Non sono infatti tanto la poesia d'accatto o le intense espressioni intense, quanto le subitanee ed improvvise accelerazioni verso il sentimentale, totalmente fuori posto e mal accostate a momenti di commedia, che generano il ridicolo.

Stessa cosa nel segmento di Carlo Verdone, che dei tre è quello più godibile per le improvvisazioni e le estemporanee battute di Verdone, piccole chicche da mestierante della battuta. Il resto è piattume, come il manicomio pieno di matti bellissimi ed estremamente creativi. Non ci potevo credere ma ce n'è addirittura uno alle spalle dei protagonisti che dipinge un olio su tela, un mare in tempesta....
Anche lì il modo in commedia e sentimento si uniscono rende tutto poco credibile e coinvolgente perchè si passa dall'uno all'altro senza che i loro toni si mescolino ma semplicemente accostandoli.

Ultimo arriva il segmento di Robert De Niro, Monica Bellucci e Michele Placido (che ha l'onore di mettere le mani al collo di Bob). Il senso di straniamento è forte. E sebbene negli ultimi anni ne abbiamo visti di filmacci a cui ha preso parte l'ex grande attore, qui si toccano nuove punte. Come la scena in cui va a fare jogging sembrando Benny Hill o il pessimo green screen dei fuochi d'artificio o ancora la scena in cui lavora con il portatile sui resti del foro romano (?!?!!).
Più che usare De Niro in quanto tale, con la sua tecnica, il suo modo di fare ed interpretare il cinema, Veronesi l'ha piegato e abbassato al livello del suo film. Lo si vede nelle sue narrazioni fuoricampo in inglese o nelle mossette da italiano, tutto lo porta ad essere al livello dei bravi attori italiani coinvolti in questi progetti e non l'elemento esotico e magari nuovo che poteva essere. Unica eccezione i suoi intensi primi piani intensi, che se non altro sono intensi per davvero.

Tuesday, January 11, 2011

Vi presento i nostri (Little Fockers, 2010)di Paul Weitz

POSTATO SU
La serie di "Ti presento i miei" è il classico esempio del franchise andato male per eccesso di sfruttamento (se ci fosse un manuale di produzione cinematografica starebbe assieme a I pirati dei Caraibi nel capitolo titolato "Produrre come se non esistesse un domani"). Lo schema è: dopo un primo capitolo bello e di successo, nel secondo se ne estremizzano gli elementi che si sono rivelati di successo, si aumentano le partecipazioni importanti e inevitabilmente se ne svilisce il valore.
In controtendenza con quella che sembrava una piega inevitabile però, il terzo film che contrappone Stiller/De Niro recupera un po' del divertimento originale senza arrivare a quelle vette, anche perchè nessuno dei coinvolti, specie Ben Stiller, sembra più così in forma e pieno di voglia di fare come allora.

Cambiano il regista (non più Jay Roach) e alcuni membri del team di scrittura, si riducono in termini di importanza, sebbene aumentino per numero, le partecipazioni (Dustin Hoffman, Barbra Streisand, Laura Dern, Jessica Alba e Harvey Keitel hanno poco spazio) e ci si concentra su quella che era l'idea originale: un povero marito, di natura non eccezionale, che ha come suocero un ex della CIA con il mito del meglio per sua figlia.
Sebbene qualche gag sia un po' forzata e sembri non profondere nessun impegno nell'ideare incastri in cui il genero involontariamente fa brutta figura o danneggia il suocero, la maggior parte del racconto tiene di nuovo presente quello che era la base del successo del primo film: un meccanismo complesso che incastri il protagonista con la medesima ineluttabile sfortunata casualità che si riscontra nella realtà.

La cosa più curiosa è come il film recuperi un certo citazionismo per i classici del cinema (soprattutto di generi che non sono la commedia) che era la regola nella prima metà degli anni '00 e che ora si è (fortunatamente) abbandonato.
Vedere riferimenti all'inseguimento in metropolitana di Il braccio violento della legge o alle scene di suspense di Lo Squalo, provoca uno strano effetto deja vù. Il ricordo però non va ai film citati quanto ai film che facevano di quel citazionismo alla buona, continuo e un po' forzato la regola. La citazione che finisce per citare se stessa e non il proprio contenuto.

Friday, November 12, 2010

Stanno tutti bene (Everybody's fine, 2010)di Kirk Jones

POSTATO SU
Il problema del remake americano di Stanno tutti bene è evidente anche prima di iniziare a vedere il film. La pellicola di Tornatore era molto poggiata sul protagonista, Marcello Mastroianni, la precisa caratterizzazione data al ruolo era l'essenza stessa del film. Dagli occhiali a lente, al modo di parlare e di porsi (un uomo di altri tempi e di altri luoghi, trasferito nelle grandi città moderne), il film girava tutto intorno alla sua sensibilità tradita, frustrata e sorpresa. Il problema si pone dunque quando a fare il remake c'è Robert De Niro, attore tra i più stanchi, mosci e svogliati degli ultimi anni.

La conferma arriva subito. Non c'è caratterizzazione, non c'è caricatura, non c'è espressionismo nel corpo deniriano di questo film. Kirk Jones sembra saperlo e sposta l'asse. Stanno tutti bene americano è molto più un film corale di quanto non lo fosse l'italiano. Le storie dei figli sono più importanti (non a caso qui sono 4 mentre lì erano 5, in modo da concentrarsi di più su ognuno) e non dei meri veicoli per altre idee (l'anomia cittadina, il contrasto individuale con la tradizione in cui si è cresciuti e la modernità in cui si vive).
Scompare anche la forte idea di contrasto tra presente e passato, quell'evoluzione sociale del paese che è stata la cifra di tutto un importante periodo produttivo di Tornatore. Per Kirk Jones Stanno Tutti Bene è una storia di famiglia e basta, e al massimo di vecchiaia (forse l'unico tema assente nell'originale). Rifiuta la forte impronta estetica di Tornatore e soprattutto (strano a dirsi per un film anglosassone) quell'idea che parte delle idee legate al racconto fossero veicolate da alcuni incontri palesi contrasti, sui quali regna quello bellissimo del cervo sull'autostrada.

La cosa potrebbe anche andare bene, se non fosse che, oltre al protagonista, anche il resto del film è abbastanza stanco e, quando può, si rifugia in un sentimentalismo melodrammatico che cerca la lacrima senza meritarsela, solo proponendo i più elementari meccanismi stimolo-risposta.
E suonano ridicole anche le variazioni oniriche quando non si applica quella patina fellinica che invece aveva l'originale (vuoi anche per la partecipazione alla sceneggiatura di Tonino Guerra) e che gli dava un senso vero, come nella sequenza finale delle rivelazioni infantili.
Curioso infine come questo film americano abbia un finale più italiano di quanto non fosse quello del nostro film.

Tuesday, April 14, 2009

Disastro ad Hollywood (What Just Happend?, 2009)di Barry Levinson

POSTATO SU
Spesso Hollywood ha parlato di Hollywood mettendo in scena il making di un film dal punto di vista del tormento produttivo. In questi film si rivelano i retroscena di come si fanno i film ma non come fece Truffaut in Effetto Notte, che cercava di poetizzare il proprio mestiere, gli americani cercano di spoetizzare quanto più gli è possibile per spiegare come davvero si tratti di un lavoro come altri, la cui unica differenza è il giro di soldi e il livello di eccentricità che si registra. Loro che parlano così poco di cinema nei loro film quando lo fanno promuovono la mentalità industriale dietro tutta la macchina hollywoodiana.

Disastro Ad Hollywood però è qualcosa di più. Girato con grande divertimento ma anche con moltissimo sentimento racconta, come spesso capita, di un produttore e dei suoi tormenti lavorativi e personali. C'è un matrimonio (il secondo) che sta finendo, un final cut da portare assolutamente a termine (come vuole la produzione e non come vuole il regista) per poter andare magari a Cannes e un altro film da far partire a tutti costi costringendo un vanesio Bruce Willis a tagliarsi la barba.

Il protagonista assoluto è però Robert De Niro (finalmente in un ruolo dove si impegna sul serio!) produttore esecutivo noto e potente ma non ancora nel giro dei numeri 1, che si districa tra vita privata e professionale affidando a cose banali e stupidissime svolte fondamentali. Dal taglio della barba del capriccioso Willis dipendono gli stipendi di molti lavoratori e la partenza di un film, da un cane che muore su schermo tutto il suo futuro professionale in una serie di alti e bassi che non si distaccano da ciò che conosciamo di Hollywood, dove conta solo l'ultimo film che hai fatto.

Il ritratto della Mecca del cinema infatti è perfettamente coerente con quanto spesso nelle interviste ha raccontato un autore che contemporaneamente è dentro e fuori dal sistema come Martin Scorsese e le dinamiche di potere e di "terrore" sacro per gli attori più importanti molto verosimile.

Levinson si diverte molto a giocare con la diegesi della colonna sonora e a spiazzare lo spettatore con diversi trucchi che non risultano mai fini a se stessi, ma il suo massimo lo raggiunge con la straordinaria levità con la quale riesce a raccontare il lento separarsi di una coppia.
Il film infatti tocca le sue vette più alte grazie ad un sentimentalismo forte e non ostentato. Dietro la patina, le mesh, le scopate e le falsità lavorative la vita del produttore è passata al triste metal detector per mostrarne le quotidiane delusioni e i desideri inespressi di un uomo normale in un contesto straordinariamente grottesco. E proprio su questi inespressi entra in gioco finalmente dopo anni la grandezza di De Niro.

Thursday, September 25, 2008

Sfida Senza Regole (Righteous Kill, 2008)di Jon Avnet


La cosa peggiore non è la trama stupidissima e prevedibile che scimmiotta i polizieschi asiatici degli ultimi anni con un gioco di agnizioni, svelamenti e doppie identità che vorrebbe operare chissà quale riflessione, e non è nemmeno la direzione assolutamente impalpabile di Jon Avnet che non vuole essere invisibile (magari!!) bensì dare un'impronta che non si capisce quale sia risultando solo "vacante" cioè invisbile colpevolmente. La cosa peggiore è che è recitato male! Dico davvero. E forse anche il titolo italiano è la cosa peggiore (che senso ha? No davvero, razionalmente, che senso ha rispetto al film? Ma anche rispetto alla promozione? Attira? Non è una questione di fedeltà all'originale, ormai non ci crede più nessuno, ma proprio di intelligenza. è un titolo che invoglia? Che differenzia subito questo film dalla massa degli altri titoli?).

Già un film di attori hollywoodiani come è questo in Italia si trasforma in un film di doppiatori (il che...) senza nemmeno la presenza di Ferruccio Amendola e Giancarlo Giannini (il secondo per cause ignote) ad alleviare il dolore, ma poi bisogna aggiungere che è anche un film in cui le solite voci impostate e particolarmente caricate dato l'evento (le due leggende del cinema insieme per davvero!) si scontrano con le immagini di due uomini stanchi e pigri.
Uno (Pacino) fa se stesso senza cercare un minimo di deviazione dal suo solito senza un guizzo di originalità limitandosi a tirare fuori il repertorio delle peggiori occasioni, l'altro (De Niro) proprio non gli va. Ma non gli va davvero.

E' stato un supplizio. Ecco "supplizio" è la parola giusta. E' stato un supplizio.