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Tuesday, November 4, 2008

The Burning Plain (id., 2008)di Guillermo Arriaga

POSTATO SU
Se c'è una caratteristica unica e isolabile delle sceneggiature di Arriaga (oltre a questa anche Babel, Le Tre Sepolture, 21 Grammi e Amores Perros sono sue) è la solitudine di personaggi inconsapevoli di esserlo e incapaci di vincerla, che anzi quando tentano di porvi rimedio fanno anche peggio.
Odiatissimo dalla critica ufficiale e non, specialmente quando in coppia con Inarritu, adesso decide di portare da solo su schermo un suo scritto confezionando con Burning Plain un'opera che solo per piccoli elementi si allontana da come Inarritu trattava i suoi script (ma Inarritu comunque dirige meglio).

E' intelligente Arriaga, conosce i suoi limiti e sa che ovviamente il punto di forza del film starà nella scrittura, così dirige senza guizzi optando per una sottolineatura cromatica delle diverse dimensioni del film (4 come gli elementi della natura) e per alcuni raccordi di montaggio che passano improvvisamente da Jennifer Lawrence a Charlize Theron per spiegare che si tratta del medesim personaggio in momenti diversi della vita (il nome però non è lo stesso perchè negli anni trascorsi tra i due momenti lo ha cambiato).

Come sempre la volontà di raccontare una storia dotata di un intreccio forte, spiegato con abilità e senza linearità temporale, si unisce all'altra idea tipica di Arriaga cioè di un mondo di "fatti" legati gli uni agli altri in un modo o nell'altro e quindi in un certo senso concausantesi che di fatto stringono i personaggi e li condizionano.
Però come sempre alla fine della fiera, andando a stringere davvero da tutto questo intreccio, da tutti i riferimenti e da tutta l'indubbia abilità non emergono personaggi interessanti nè tantomeno situazioni clamorose, bensì figure umane poste di fronte a scelte già raccontate dal cinema che non sono affrontate in maniera nè particolarmente empatica nè particolarmente efficace.
Anche Burning Plain è in fondo solamente un gran bel girare in tondo.

Monday, September 8, 2008

Hancock (id., 2008)di Peter Berg

POSTATO SU

Hancock scivola via come acqua fresca.
Messo in scena in maniera ineccepibile da Peter Berg (regista che guadagna sempre più credibilità anche dopo questa prestazione nel complesso incolore) il film nonostante segua uno sviluppo narrativo classicissimo non decolla mai. Intendo emotivamente.

Hancock è all'inizio il superuomo comune, proiezione mentale di quello che ognuno (ritiene) diventerebbe se avesse dei superpoteri, ovvero un menefreghista che pensa a se stesso e si lascia andare conscio del fatto che i suoi poteri faranno sì che non abbia problemi e che ogni tanto si ricorda di fare delle buone azioni ma con una leggerezza tale da causare anche immani problemi.
Col procedere del film poi acquista chiaramente in bontà, responsabilità e consapevolezza fino alla svolta di trama (che nonostante non sia attesa manca anche lì di emozionare).

Tutto è buonissimo, anche quando è un derelitto Hancock è a suo modo gentile e buono, non usa davvero i poteri solo per se stesso nè per trarne un autentico giovamento e dopo poco si scopre che dietro a tutto c'è un trauma. Dovunque ci si giri c'è morale e moralità nonostante le condizioni del film lascino intuire la possibile presenza di tentazioni "maligne".

Forse anche per questo eccesso di miele l'idea principale di messa in scena di Berg, ovvero riprendere la storia di un supereroe con macchina a mano come ad Hollywwod fanno quasi solo per i film di guerra, perde di forza e si spegne nel consueto.
La portata innovativa di introdurre del realismo nella pellicola non attraverso la trama ma attraverso il modo di riprendere cozza terribilmente poi con quanto accade, con le cose che i personaggi si dicono e soprattutto con le aspettative di "trasgressione" che lo spettatore ha nei confronti del supereroe barbone, continuamente tradite.

Se Hancock vuole riflettere sul concetto di superomismo in un momento in cui il cinema è pieno di supereroi da fumetto, manca di farlo in maniera convincente finendo per essere un ennesimo capitolo (blando) proprio del fenomeno sul quale intende riflettere.

Thursday, November 29, 2007

Nella Valle Di Elah (In the Valley Of Elah, 2007)di Paul Haggis


Per Nella Vale Di Elah occorre fare un discorso speculare a quello di The Kingdom, benchè i due film non abbiano molti punti in comune se non che entrambi fanno riferimento allo sforzo bellico statunitense in Medio Oriente.
Dal discorso fatto per The Kingdom infatti era rimasto fuori il tema del "reducismo" che è un'altra matrice importantissima per il cinema di genere bellico americano dal Vietnam in poi.
Se dunque The Kingdom è al momento la punta del nuovo modo di girare film di guerra sul conflitto in corso, Nella Vale Di Elah ripropone (in chiave non nuova nè innovativa) il tema del reducismo aggiornato a questa guerra.
Certo i film sui reduci non si sono evoluti come i corrispettivi film di guerra se non per il cambio di paesaggio e mezzi (deserti al posto della giungla negli incubi, e grande uso di tecnologie).

Così Nella Vale Di Elah batte un'altra strada per distinguersi, non quella del cambio di linguaggio ma quella dello spiazzamento dello spettatore.
Paul Haggis è indubbiamente forte, un grande sceneggiatore ma non un altrettanto grande regista, così l'idea di fondo del film non è niente male (l'indagine di un padre su cosa sia accaduto al figlio al ritorno dalla guerra che piano piano lascia emergere visioni di guerra e storie di reduci), ma non si può dire lo stesso poi della realizzazione.
Il film punta molto su Tommy Lee Jones che recita per sottrazione (va tantissimo in questo periodo, chissà se reggerà poi la prova del tempo...) e cerca di non parlare apertamente dei reduci ma di lasciare che siano uno sfondo costante.
Alcuni personaggi sono azzeccatissimi come quello di Charlize Theron, altri più banalotti (come quello di Susan Sarandon), ma nel complesso il film ha il suo perchè. La forza dello script alla fine vince e il tema e le domande che si pone Haggis (cosa è più opportuno fare nelle situazioni vissute dal figlio di Tommy Lee Jones? Cosa è veramente patriottico? E la sempre verde: Stiamo mandando i nostri figli al macello?) sono convincenti e ben esposte. Certo poi si fa una gran fatica a sopportare ancora quelle bandiere che sventolano...

Una cosa però mi lascia perplesso e nessuno ne parla: perchè solo gli americani hanno il problema del reducismo?
In Europa abbiamo fatto tantissime guerre e nessuno ne ha mai parlato. Nazioni come Francia e Inghilterra sono andate in giro per il mondo a fare guerre e guerriglie, anche urbane, contro civili e non si è mai parlato di malattie da ritorno. Addirittura nel conflitto in corso gli inglesi hanno avuto una partecipazione simile e paragonabile a quella americana con tanto di scandali per maltrattamenti ai prigionieri ecc. ecc. Eppure nemmeno un problema da reduce...