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Monday, May 16, 2011

The tree of life (id., 2011)di Terrence Malick

Sia per la Bibbia che per il Corano Giobbe è l'uomo giusto messo alla prova da Dio per dimostrare come non si debba giudicare l'operato divino in base ai parametri umani. Tree of life comincia con una citazione su Giobbe.
La storia è presto detta sebbene non semplice da ricostruire lungo la frastagliata ed episodica narrazione malickiana. Un architetto insoddisfatto (Sean Penn), nel recarsi al capezzale della madre morente (Jessica Chastain che ricorda molto la Sissy Spacek di La rabbia giovane) compie un viaggio metafisico oltre la morte e indietro nella memoria a quando era ragazzo. Intorno all'età di 14 anni fa infatti due lutti colpiscono la sua famiglia e prende coscienza del rapporto conflittuale con il padre.

L'obiettivo di Malick era narrare la vita nel senso più lato possibile. La vita dell'uomo, degli animali, delle piante e del pianeta, soggetta alle leggi naturali e della grazia, il contrasto tra esigenze terrene e necessarie aspirazioni trascendentali. La grazia e la natura negli uomini come nei dinosauri.
Tra ampie digressioni sull'origine dell'universo e della Terra, scene da microscopio e da telescopio, dinosauri e feti The tree of life fa un racconto per scene, esasperando lo stile frammentato di Terrence Malick. Il regista racconta una vita intera mostrandone solo un dato momento e senza l'aiuto di una trama propriamente detta. Come se si chiedesse quali siano le immagini, le visioni e i colori in grado di raccontare una vita, non tanto nei suoi eventi ma nel suo più profondo sentire. Raccontare sentimenti senza legarli ad eventi.

Ecco The tree of life riesce nella titanica impresa di mettere davanti agli spettatori il più clamoroso dei contrasti, quello tra sofferenze e gioie terrene rispetto all'immensità dell'assoluto. Ponendo l'origine di tutto e la sua fine come confini facilmente oltrepassabili.
Come esempio della portata basti dire che lungo il corso del film gli uomini si chiedono il perchè delle sofferenze che Dio impone loro, i figli si chiedono il perchè di un'educazione repressiva da parte del padre. Il macro e il micro, continuamente messi a confronto, siano cellule e pianeti che uomini e dei.

Come sempre Malick raggiunge i suoi obiettivi passando per tutto ciò che non è umano. I rumori ambientali sono presenti con una forza pari solo a quanto la fotografia di Lubezki insiste sulla luce solare (il film si apre e si chiude su dei girasoli e in mezzo i raggi controluce sono una costante) e sulla "sostanza" materiale e tattile degli elementi naturali. Animali, piante, vento, terra, acqua e uomini hanno lo stesso peso e la stessa importanza nelle inquadrature di Malick, per questo non c'è momento in The tree of life in cui anche la più nota delle inquadrature non stupisca.
Moltissimo viene da 2001: Odissea nello spazio (immagini di pianeti che eclissano il sole, un meteorite come il monolito, la musica classica...), anche grazie al comune utilizzo di Douglas Trumbull, eppure lo stesso il film vive su alcuni momenti spiazzanti e di una bellezza devastante come un feto nascosto dietro la membrana ovulare che ricorda un volto dietro una tenda.
Tree of life è un film altissimo che lavora dentro lo spettatore. Malick c'è riuscito ancora.

Monday, December 6, 2010

Megamind (id., 2010)di Tom McGrath

POSTATO SU
Se è vero come è vero che il processo di creazione di un lungometraggio d'animazione dura all'incirca 4 anni allora Megamind è stato concepito poco dopo l'uscita (e il successo di pubblico e critica) di Gli Incredibili. Difficile non pensare che un film sul mondo dei supereroi realizzato con un approccio così adulto, così concreto e così poco superomistico, in fondo non sia figlio di quella straordinaria produzione.

Megamind però è anche sicuramente il cartone Dreamworks più bello di sempre, e non certo per merito del tema. Se infatti il regista è la stessa persona al timone della serie Madagascar (in produzione nei medesimi anni, ci si chiede come abbia fatto a seguire entrambi...) è anche vero che tra gli scrittori figurano collaboratori dei fratelli Coen e nella categoria "consulenti e produttori esecutivi" nomi come Ben Stiller, Justin Theroux e Guillermo Del Toro. Nessuna prova schiacciante ma qualche possibile spiegazione su un simile innalzamento di qualità.

Megamind prende la storia di Superman (di Richard Donner) e la sovverte, una dinamica tipicamente Dreamworks: citazionismo spinto finalizzato a ribaltare le previsioni degli spettatori (ma c'è davvero ancora qualcuno che si aspetta che il buono sia il personaggio positivo??). Megamind, il cattivo, in realtà è tale solo a causa del contesto in cui è cresciuto e la storia del film, la sua ricerca di una controparte che ne giustifichi l'esistenza, causerà la conversione al bene. Notabile poi come finalmente si smetta di vedere in chiave sempre e comunque positiva il perdente o il nerd di turno.
E qui sta la componente più convincente del film, nel fatto cioè che Megamind vince a modo suo, senza stravolgere le logiche Dreamworks, dimostrando che non è quel che fai ma come lo fai a fare la differenza.

L'unica particolarità del film è come esso compia il suo percorso narrativo due volte. C'è una prima storia, molto canonica, che presenta i personaggi e si chiude in 30 minuti con il rapimento della bella e lo scontro con l'eroe, e poi una seconda storia, quella più pregnante e decisiva, che occupa il resto del film.
Fatta salva questa variazione siamo nel campo della prevedibilità e proprio in questo modo si dimostra che può esistere un buon cinema Dreamworks, capace di sorprendere sul serio e regalare momenti di forte autenticità, senza negare la propria natura.
Come già visto in Rapunzel (e prima in Toy Story 3) c'è un'evoluzione netta nel modo in cui viene gestita l'espressività dei volti. Così anche in Megamind i personaggi "recitano" meglio ma non solo, la solita storia è raccontata con un'abilità nel distendere e snodare gli eventi che riesce nel miracolo. Convincerci nuovamente che quel modo abusato di narrare una storia e disseminare colpi di scena non è ormai così trito da risultare prevedibile, ben dosato può ancora funzionare.

Wednesday, January 28, 2009

Il Curioso Caso di Benjamin Button (The Curious Case Of Benjamin Button, 2009)di David Fincher

POSTATO SU
La questione si potrebbe risolvere in due parole: Forrest Gump.
Il Curioso Caso di Benjamin Button è infatti il classico film realizzato a forma di Oscar, pronto per intrattenere con ironia e sentimento a partire da una storia che ripercorre una parte della storia recente americana. La struttura del racconto poi è quanto di più abusato ci sia: uno dei protagonisti che ormai vecchio rivive tutti gli eventi attraverso la lettura di un diario da parte della figlia. Un modus operandi già visto (solo per dirne due) in Titanic o Il Piccolo Grande Uomo (ma in un certo senso anche nello stesso Forrest Gump).

Del film di Robert Zemeckis questo ha le dinamiche che sorreggono il racconto, cioè quelle che vedono un protagonista strano e innocente passare attraverso i grandi sconvolgimenti con in mente il suo unico vero amore, una donna più dinamica, emancipata e collegata al proprio tempo di lui.
Ciò che invece gli manca è la capacità di far emergere dalla globalità degli elementi di messa in scena un vero senso, nonchè la capacità di intrattenere che una volta era la caratteristica principale di Fincher. Solo la divina Cate Blanchett riesce con quel suo sguardo che E' cinema esso stesso a regalare momenti di coinvolgimento (come quando vede Benjamin tornato giovane dalla guerra).

Sebbene come idea quella alla base di Benjamin Button non abbia nulla da invidiare a quella alla base di Forrest Gump (un uomo che nasce vecchio e a mano a mano che vive ringiovanisce), lo stesso i personaggi non sono altrettanto affascinanti, lo stesso le loro idee e le loro interazioni non riescono a farsi paradigmatiche. Non incarnano un periodo, non incarnano un modo di vivere nè tantomeno la propria unicità.

Fuori dai canoni di una narrazione dotata di un intreccio originale (per quanto sia strano lo spunto della trama alla fine la trama è molto canonica) Fincher si trova male. Costretto a venire a patti con un'idea classica di racconto non riesce a staccarsi dal manierismo e dalla calligrafia, risultando in due ore e mezza scorrevoli ma inevitabilmente piatte e ripiegate sul già visto. Anche la locandina inevitabilmente è ricalcata su un'altra (che gli è superiore per le espressioni più convincenti dei volti e per come sono stretti nel quadro).

Tuesday, September 30, 2008

Burn After Reading - A Prova Di Spia (Burn After Reading, 2008)di Joel e Ethan Coen


Nonostante credessi il contrario mi sono reso conto subito che più che seguire la scia delle ultime commedie pure (Fratello Dove Sei, Prima Ti Sposo E Poi Ti Rovino) Burn After Reading segue direttamente l'altro filone dei Coen e più precisamente Non E' Un Paese Per Vecchi. Ne ha il medesimo impianto, la medesima visione di mondo caotica e inspiegabile e la medesima tipologia di intreccio violento, tutto focalizzato su un bene (lì i soldi qui un CD) che ad un certo punto diventa puro pretesto (il McGuffin) per mostrare le diverse reazioni umane allo sconvolgimento del proprio equilibrio. Solo che ovviamente Burn After Reading opta per una visione ironica dei medesimi fatti.

Con tutta probabilità sarebbe possibile rigirare anche Non E' Un Paese Per Vecchi in chiave comica, senza modificare in nulla la storia e i significati del film. E' solo una questione di forma.
I Coen oscillano tra le loro passioni i loro stili e probabilmente anche ciò che gli conviene (le commedie solitamente vanno meglio e attraggono di più i favori del pubblico) ma rimane invariato il momento che vivono, le cose pensano e che decidono di veicolare con il cinema.

E' sempre presente infatti la visione violenta della vita reale, che è l'unica autentica eredità lasciata dal pulp e dagli anni '90. Uccisioni molto violente mostrate in maniere esplicite ma sempre ironiche (anche nei film più seri) in contesti che solitamente non sono le sedi della violenza e spesso perpetrate con mezzi "alternativi", cioè armi non convenzionali come bastoni, chiavi inglesi, compressori ecc. ecc. Proprio nel senso di violenza del quotidiano, che avviene in fretta e con quello che si ha a disposizione come nei fatti di cronaca. In questo il massimo topos coeniano è l'uomo in calzini, ciabatte, mutande, canottiera e vestaglia che va a farsi giustizia con violenza.

Divertente infine come tendano spesso a saltare i momenti topici. Sia in Non E' Un Paese Per Vecchi che in questo film c'è una morte molto importante (tra le tante) e non è mostrata ma raccontata da qualcun altro oppure mostrata solo dopo l'avvenimento, quando solitamente l'uccisione di un personaggio tra i protagonisti è un momento di punta del climax narrativo che come tutti i momenti topici offre mille possibilità di "fare la differenza" ovvero rispettare o tradire le aspettative del pubblico, aderire o distanziarsi dal solito. I Coen invece lo fanno raccontare come nella tragedia greca dove il coro annuncia le morti.

Ah! E finalmente Brad Pitt è bravo sul serio. Ma tanto i Coen fanno recitare bene tutti...

Thursday, January 17, 2008

L'Assassinio di Jesse James Per Mano Del Codardo Robert Ford (The Assassination of Jesse James By the Coward...., 2007)di Andrew Dominik


Recuperato in extremis nell'ultima sala che lo proietta a Roma (la 7 del cinema Madison, una delle peggiori sale mai frequentate (e mi vanto di averne frequentate di orrende!)), L'Assassinio di Jesse James è stato uno dei film più pompati in rete degli ultimi anni ma per quanto mi riguarda si risolve in un buco nell'acqua.
La confezione è splendida, ma splendida davvero, nel senso non di banalmente curata ma di originalmente strutturata per avere al centro di tutto fotografia e paesaggi, una natura che è l'anima del western da sempre e che Dominik vuole riscoprire ma che non riesce però ad essere davvero importante come dovrebbe.
Un titolo molto bello, arrogantissimo, dichiarazione programmatica di intenti, svelamento di trama e desiderio dell'autore di prendere posizione prima ancora che il film inizi.
Una narrazione lenta e controllata che non ha fretta di procedere ma che anzi ama soffermarsi sui piccoli passaggi e che tuttavia confonde tutto e si rivela ridondante.
Una storia che volutamente mette in primo piano il concetto stesso di narrazione, di mito: Jesse James che racconta ciò che ha fatto come una favola, la gente che lo vuole imitare, il fanatismo, i libri scritti... Tutto il film non mostra mai effettivamente il marketing della figura dei fratelli James ma ogni cosa che succede ne è conseguenza e ci riflette sopra anche in maniera esplicita con la bella sequenza della rappresentazione teatrale. Eppure anche in quel caso tutte le buone intenzioni (contenutistiche e formali) non vanno più in là dell'intenzione.

Fa tutto bene Dominik ma con freddezza. Si inserisce anche con perizia nella linea evolutiva del western disegnando eroi che non hanno gloria, che non sono all'altezza della leggenda che li ammanta (come James Stewart di L'Uomo Che Uccise Liberty Valance, film a cui Dominik non può non aver pensato a partire dal titolo) e per i quali non ci sarà ricompensa. Sconfitto Jesse James, sconfitto Robert Ford.

Eppure si soffre durante la visione. Io che sono un grande amante delle confezioni e della forma non posso che condannare un simile sfruttamento, vero e proprio adescamento per formalisti.
Essendo passato attraverso molte traversie, tagli e secondi montaggi si possono trovare molte motivazioni al perchè L'Assassinio di Jesse James risulta poco riuscito nonostante gli intenti.

Brad Pitt Coppa Volpi? AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!!!!!