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Wednesday, April 23, 2008

Il Treno Per Il Darjeeling (The Darjeeling Limited, 2007)di Wes Anderson

POSTATO SU

Uno dei tratti fondamentali di parte del cinema d'azione asiatico moderno (almeno per un occhio occidentale) è l'esplosione di violenza, il fatto cioè che spesso i momenti efferati e violenti arrivino senza alcun preavviso tipico solitamente dato da elementi come musica, montaggio, dialoghi, sguardi o qualsiasi altra strategia cinematografica. Allo stesso modo in Wes Anderson esplodono le emozioni, il suo stile di racconto cinico e un po' distaccato è poi costellato di continue microesplosioni di emotività, una frase, un gesto o un momento che rivelano un dramma o un sentimento quando meno lo si aspetta e senza che in nessun modo sia annunciato.

E' una delle caratteristiche più importanti di questo finto indipendente, che gira con un rigore raro (i suoi caratteristici movimenti di camera ortogonali qui arrivano all'esasperazione), prediligendo il piano sequenza e gli ambienti stretti (la casa dei Tenebaum, la nave di Zissou, ino all'estremo e angusto spazio della cabina del treno nel quale si trova incredibilmente a suo agio), sapendo comporre l'inquadratura come pochi oggi e raccontando storie di formazione come se ogni storia possibile fosse di formazione.

Inutile dire del continuo raccontare sempre la stessa storia di famiglia ovattate e allo sfascio, più interessante è forse notare come specialmente quest'ultimo suo film, Il Treno per il Darjeeling renda spesso esplicite molte metafore, rendendole così operative e facendole diventare uno strumento in più.
In un punto della storia i tre fratelli protagonisti tentano di salvare tre bambini, uno non ce la farà. Non era ufficiale ma metafora voleva che ognuno avesse un bambino da salvare, quasi si fosse preso carico unicamente di quella vita come obiettivo da raggiungere per la propria salvezza. Ma in maniera palese Adrien Brody dichiarerà: "Il mio non ce l'ha fatta" tenendo in braccio il corpo senza vita.
Solitamente una cosa simile è condannabile perchè non serve dirlo ad alta voce, è più efficace se lo spettatore fa l'associazione da solo. In questo caso tuttavia il fatto che lui lo dica ad alta voce non è mancanza di fiducia nello spettatore ma rende la questione esplicita e utilizzabile più avanti: il protagonista stesso aveva fatto l'associazione, sapeva che era il suo bambino e lo dice agli altri che lui il suo non l'ha salvato i quali ora sanno che lui lo pensa, è un punto di partenza e non uno di arrivo. Un segno di come Anderson non rispetti (e con buone ragioni) molte regole auree del cinema.

Questo è un solo esempio della raffinatezza stilistica del cinema di Wes Anderson (altra è la capacità di associare ad ogni personaggio anche marginale una storia (i lividi sul corpo di Natalie Portman) o di incastrare più racconti in quello principale) che nonostante cerchi in tutti i modi una personalizzazione portata all'estremo (come sempre i colori sono fondamentali oltre che coerenti lungo tutta la pellicola, al pari di una lunga serie di oggetti che ricorrono) sembra poi non riuscire ad uscire dal seminato. E lo dico con grande dispiacere.
Quello di Wes Anderson è un cinema tra i più sorprendenti e originali degli ultimi anni, l'unico che sembra essere partito dalle istanze indipendenti americane (ma già ne era lontano con Rushmore) per andare da altre parti senza rimanervi imbrigliato, l'unico che guardi davvero al passato (peraltro europeo) senza citazionismo (per questo mi hanno infastidito molto gli zoom anni '70), che sappia fare tesoro del linguaggio dei videoclip (e non per il montaggio una volta tanto!) e l'unico in grado di raccontare trame avvincenti riuscendo a trovare una strada personale per la messa in scena di personaggi umani.

Eppure, se non in Rushmore, la sua poetica dei bambini viziati cresciuti e fieri di esserlo che nonostante la bambagia non riescono ad avere i rapporti che vorrebbero, che falliscono in tutto nonostante siano pieni di potenzialità sembra non riuscire a compiere l'ultimo miglio e rimanere sempre ingabbiata in un'ottima messa in scena ma nulla più.

E comunque quando alla fine ci si trova sui monti dell'India, in un convento, con le suore, gli autoctoni e gli interni bianchi se il pensiero non vola SUBITO a Narciso Nero mi dispiace per voi.

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