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Tuesday, December 30, 2008

Cane Randagio (Nora Inu, 1949)di Akira Kurosawa

C'è uno strano rapporto tra Cane Randagio e Ladri di Biciclette. Strano perchè i film non dovrebbero avere alcuna relazione: arrivano in sala nei rispettivi paesi uno l'anno dopo dell'altro, quindi tecnicamente non ci dovrebbe essere stato il tempo per Kurosawa di visionare il film di De Sica prima di iniziare le riprese del suo (occorre anche calcolare che all'epoca le pellicole non viaggiavano oltre continente con rapidità).
Tutto può essere ma è quantomeno improbabile, dato anche il fatto che, nonostante Sciuscià avesse già vinto un premio Oscar, comunque De Sica non era ancora De Sica a livello internazionale.

Il rapporto invece c'è perchè i film a livello di struttura si somigliano molto. Entrambi figli di due paesi che escono dalla guerra sconfitti, entrambi mettono in gioco un personaggio buono contro uno cattivo che poi cattivo davvero non è ("è l'ambiente che è malsano" dice ad un certo punto Mifune), entrambi raccontano un intreccio di caccia per mostrare con stile quasi documentaristico la realtà popolare del proprio paese, entrambi sono panni non lavati in casa, entrambi girano intorno al recupero di un oggetto rubato e infine entrambi "pedinano" i propri protagonisti.

Dette le somiglianze occorre precisare che Cane Randagio poi è completamente diverso da Ladri di Biciclette, ha un altro ritmo, altre accelerazioni e nel modo in cui a metà cambia genere e rallenta i toni passando da poliziesco a drammatico ricorda molto più Anatomia di Un Rapimento dello stesso Kurosawa.
E proprio in quest'analisi dei bassifondi (che tema più classico non c'è per il regista giapponese) e quest'indugiare lontano dall'intreccio principale dando più spazio ai silenzi che il film perde, o che quantomeno non riesce a trovare una sua strada. Peccato perchè poi lo splendido finale dove tornano suspence e azione fa intuire quelo che si vedrà più avanti nella carriera del regista cioè come riesca a raccontare meglio il suo paese e lo scenario in cui si muovono i suoi personaggi quando questi sono presi dal frenetico svolgersi degli eventi.

Sunday, August 31, 2008

Barbarossa (Akahige, 1965)di Akira Kurosawa

Barbarossa per molti versi sembra più un film di Welles che di Akira Kurosawa (e comunque i due autori non sono mai stati eccessivamente lontani), anche lo stesso Toshiro Mifune con il suo fare imponente e autoritario e il barbone ricorda il panzuto omone.
E' un film titanico che dura 3 ore e che racconta procedendo quasi per episodi autoconclusivi l'ennesima odissea kurosawiana di un medico nel mondo dei bassifondi, della dignità nella povertà e dell'infamia dell'indigenza.

Questa volta ad accompagnare il medico baldanzoso ma alle prime armi c'è però una figura autoritaria e deistica (ecco Welles) positiva, il Barbarossa del titolo, dottore/padrone di un grande ambulatorio per poveri, gestito con una specie di dittatura illuminata.
Barbarossa è terribile e inflessibile ma anche caritatevole. E' colmo di principi morali ma è pronto a contraddirli in un attimo, non ammette repliche ma sa vedere oltre le apparenze. E' pronto a spaccare le ossa di un gruppo di sgherri che vogliono impedirgli di curare una donna ma poi si premunisce di curarli tutti (questa dicotomia non risolta fa pensare che difficilmente Coppola (noto amante di Kurosawa) non abbia visto questo film).

Ma oltre ai grandissimi personaggi c'è soprattutto il solito stile libero del maestro giapponese fatto di una messa in scena di un rigore e una perfezione unici (o forse si dovrebbe semplicemente dire "giapponesi"), di carrelli secchi e precisi e di una composizione delle inquadrature che coniuga come poche volte estetica e funzionalità ma anche di incredibili variazioni espressive e metaforiche.
Kurosawa fa le regole e le rompe. E ogni rottura è una meraviglia! Basta pensare alla scena in cui il giovane medico vede per la prima volta la ninfomane assassina: girata quasi tutta in unico piano sequenza e quasi tutta senza parole. Kurosawa non fa scelte funzionali ma estetiche, non fa parlare i personaggi e non si vergogna di fare un uso espressionista delle luci, eppure simili scelte non si troveranno più in tutto il film.
Oppure si pensi anche alla scelta di illuminare con dei piccoli fari gli occhi della bambina semi-autistica per le sevizie ricevute (che ricorda gli occhiali dell'assassino in Anatomia di Un Rapimento).

Impossibile infine non sottolineare alcune curiosità.
Dopo circa 15 film in 17 anni insieme Barbarossa segna la fine del sodalizio Mifune/Kurosawa, il tramonto della carriera per il primo e l'inizio di una fase più "dilatata" e colma di insuccessi commerciali (ma comunque film splendidi) per il secondo. Nulla sarà più lo stesso dopo Barbarossa a causa di aspri dissapori sul tono da dare al protagonista, titanico (com'è) per Mifune e più dimesso nelle intenzioni di Kurosawa.

Ma non può non aver influito sulle future disavventure produttive e morali (è più volte caduto in depressione) del regista il fatto che il film avendo richiesto uno spiegamento di soldi non indifferente (fu costruita completamente da zero un'intera cittadina su un territorio vastissimo) non riuscì a ripagare le proprie spese. Il successo ci fu ma non fu tale da portare in un valido attivo il bilancio.

Monday, August 25, 2008

Anatomia di Un Rapimento (Tengoku to jigoku, 1963)di Akira Kurosawa

La cosa bella di Akira Kurosawa è che per lui nulla è semplice, nulla è scontato e tutto è una negoziazione di significati.
Anche in un film apparentemente lineare come Anatomia di un Rapimento, dove tutto ruota intorno ad un rapimento ed alle indagini per scoprirne l’autore, le cose non sono mai lineari, i personaggi non sono mai quello che sembrano e le aspettative dello spettatore non sono mai confermate. Ancora di più, anche quando le aspettative vengono tradite questo non avviene come si penserebbe.

Certo parte del fascino e dell’imprevedibilità e innegabilmente dovuto alla distanza che esiste tra la cultura nostra e quella giapponese, tuttavia Kurosawa è senza dubbio il più internazionale dei registi nipponici, capace di attingere e tradurre per il pubblico giapponese le categorie, i generi e le tecniche cinematografiche del resto del mondo (più un fortissima componente originale).

In Anatomia di Un Rapimento la parte relativa alla restituzione del rapito è sbrigata con una rapidità che sorprende, per lasciare spazio alle indagini, il modo in cui si concretizza la manifestazione stessa del concetto di giustizia (gli indizi e il lento disvelarsi dell’identità del rapitore attraverso le conquiste della polizia) e soprattutto il modo in cui si esplora il mondo.
Anatomia Di Un Rapimento rivela la sua vera essenza dopo 40 minuti, non è un film sul conflitto di classe (che è ciò che scatena il rapimento), nè sulle ansie borghesi, nè tantomeno una semplice lotta tra giustizia e criminalità, ma un lento introdursi nel mondo popolare, in quelle periferie e borgate che spessissimo sono al centro dei film di Kurosawa.

Fin dall’inizio l’unica cosa che si sa del rapitore è che abita nei bassifondi della città (dai quali guardando verso l’alto vede l’opulenta villa della sua vittima), una baraccopoli disastrata che all’inizio è mostrata riflessa in un terribile acquitrino (tema, quello dell’acquitrino, che torna anche in L’Angelo Ubriaco) ed è quello il mondo che la polizia deve indagare, addentrandosi lentamente nei suoi meccanismi ma ancora di più nei suoi ambienti (la vicinanza delle rotaie, le cabine telefoniche, lo spaccio di droga, la vista ecc. ecc.).
E' l’ennesima dimensione dell’umanesimo di Kurosawa, non solo lo spietato miliardario che si dimostra di buon cuore, ma soprattutto un mondo che lo supporta e una povertà da guardare pietosamente.

La messa in scena è al solito di un rigore infinito, diversa al cambiare delle ambientazioni ma sempre inesorabile, misurata, tecnica, perfetta. Si veda (tanto per dirne una) la scena del treno. Incredibile come si muove con la camera a mano (!!) in ambienti stretti ed angusti come quelli dei vagoni, mostruoso come orchestri lo spazio per far capire allo spettatore dove si trovi ogni personaggio, divino il ritmo che riesce ad imprimere a tutta la sequenza.
E poi dopo tanto rigore nel finale (foto a destra) vira totalmente applicando una libertà di stile mai vista, deviando sul romantico (che addirittura fa pensare a Wong Kar Wai) e l'estetizzato.

Ovviamente no comment sul titolo italiano che scimmiotta il film di Preminger di 4 anni precedente. L'originale è più tipo "Alti e bassi", riferito ovviamente alle zone della città coinvolte.

Saturday, August 23, 2008

L'Angelo Ubriaco (Yoidore tenshi, 1948)di Akira Kurosawa

L'umanesimo di Akira Kurosawa quasi stucchevole a tratti si misura con una dinamica nota, quella del gangster che cerca un riscatto sul finire della sua vita, ma lo fa contrapponendogli una figura molto particolare ovvero un medico che secondo le regole dovrebbe essere il polo buono, umano e positivo ma che nella pratica del film lo è solo a tratti.

La matrice fondamentale sembra essere un melodramma, anche per l'uso espressionista delle condizioni climatiche (un caldo asfissiante), tuttavia il film si distanzia ben presto dagli stereotipi e dai luoghi comuni del genere per approdare ad un obiettivo decisamente più ambizioso.
Il medico è l'angelo ubriaco del titolo, figura storicamente positivissima in tutti i melodrammi ma qui affrontata con un'inedita complessità. Nonostante la preponderanza dello yakuza Mifune, alla fine è il medico Shimura a rappresentare il vero cuore del film, intorno a lui ruotano tutti i personaggio e su di lui sono calibrate tutte le scene.

Intenso e rigoroso come sempre il Kurosawa di L'Angelo Ubriaco contiene a fatica uno stile che esploderà in seguito, modera i suoi fenomenali carrelli ed è tutto preso dall'inserire i suoi personaggi in un ambiente ben specifico (la periferia) facendo attenzione a che ogni volta sia il paesaggio a determinare le interazione e a ridefinire ciò che accade grazie ad un uso sistematico (ma non è certo la prima nè l'ultima volta) della profondità di campo. Del resto erano gli anni del rapporto personaggio/paesaggio e non stupisce come anche Kurosawa sperimentasse in questo senso (poi dopo arriverà la sublimazione con Dodes' Ka-Den).
Ogni passeggiata è fatta davanti a muri diroccati, ogni discorso in interni sfondati, ogni acme emotivo accanto alla terribile palude dove giocano i bambini.

Thursday, January 31, 2008

La Fortezza Nascosta (Kakushi-toride no san-akunin, 1958)di Akira Kurosawa

Questa volta non si parte da un dramma shakespeaeriano ma è come se lo si facesse.
La Fortezza Nascosta cerca il colpo al cerchio e quello alla botte, proponendo amore, avventura e comicità, ognuno secondo le direttrici della tradizione.
Siamo ben lontani dai dintorni del capolavoro eppure il film fortunatamente va oltre la propria vocazione nella direzione proprio di quel western samuraiesco nel quale il maestro nipponico eccelleva trovando così la salvezza.
Sono i paesaggi aridi e assolati in contrasto con le foreste fitte, le zone desertiche e le case riparate, il rapporto che i personaggi instaurano con i paesaggi (per come sono ripresi) a ricordare il western.
Ma è solo una base di cui Kurosawa si serve per fare il suo racconto anche in maniera più popolare del solito.
Epica la scena della lotta con le lance e quella dell'inseguimento a cavallo.