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Tuesday, January 25, 2011

Parto col folle (Due Date, 2011)di Todd Phillips

POSTATO SU
Se c'è una cosa che Parto con il folle fa (e di cui gli storici del cinema non potranno non tenere conto) è aggiungere un nuovo elemento alla lista di rischi che si corrono nel tenere con sè le ceneri dei propri cari estinti. Oltre a far attenzione a non gettarle contro vento (come insegna il Drugo), a non confonderle con la sabbia della lettiera del gatto (come fa Gaylord Fotter) e via dicendo, ora sappiamo anche che non vanno tenute in un contenitore di caffè, specie in casa di persone che hanno finito il caffè.

Intorno a questo fondamentale elemento cinematografico c'è un film che si fonda sulla classica idea della coppia male assortita in viaggio (poco Accadde Una Notte molto Un biglietto in due). Una tipologia di racconto che fa della deviazione e del detour continuo (in un paese dagli ampi spazi che vanno sempre rappresentati al cinema) la dinamica fondamentale, allontanando continuamente l'obiettivo e frustrando la tensione verso il suo raggiungimento attraverso comiche disavventure.
Una versione più banale e classica di quella dinamica di "raggiungimento" che era alla base del precedente, devastante successo di Todd Phillips: Una notte da leoni. Se lì il viaggio degli immaturi macinava pochi chilometri ma molta memoria e il percorso era più conoscitivo che fisico, qui invece si macinano miglia sull'autostrada e alle gag di scoperta dell'assurdo si sostituiscono quelle di avvenimento dell'assurdo. Vedere invece che immaginare.

Ciò non leva che Parto con il folle sia una variazione sul tema del film precedente, che in un certo senso ne cavalca il successo e come spesso capita lo fa con pochissima verve. Non solo lo scemo comico questa volta interpretato da Zach Galifianakis non è all'altezza dell'Alan che ubriacava alla perdizione i suoi nuovi amici (qui nasconde il fatto di aver rubato un portafogli e così scatena l'Odissea) ma anche la spalla perbene, il violento uomo comune di Robert Downey Jr., non sembra assolutamente in forma.

Friday, July 23, 2010

Giustizia Privata (Law abiding citizen, 2009)di Gary Felix Gray

POSTATO SU
Da Seven in poi il cinema dei grandi piani, delle grandi orchestrazioni che si srotolano davanti ai nosri occhi con impressionante metodicità ha ricevuto un consenso e quindi una fortuna produttiva sempre crescente. Giustizia privata è un tipico esempio della sua degenerazione.
Si racconta di un padre di famiglia a cui vengono uccise e violentate moglie e figlia sotto i suoi occhi. La sua sete di giustizia però si infrange contro il sistema, il suo avvocato infatti gli spiega che non sarà possibile avere il massimo della pena per i colpevoli (benchè siano stati catturati) poichè mancano molte prove e senza prove non c'è giustizia. La cosa avrà devastanti conseguenze dopo un ellisse di 10 anni in cui è stato messo a punto un piano di vendetta mostruoso.

Se potessi usare una sola parola per questo film sarebbe "implausibile". Anche con tutta la buona volontà e la disposizione ad accettare un'americanata con le sue assurdità fantasiose, il problema di Giustizia Privata è che va oltre la decenza nel presentare un pianificatore onnipotente, in grado di prevedere qualsiasi cosa con 10 anni di anticipo sui fatti.
Se il tema, come viene ricordato con una certa insistenza, è quello dei confini della legge e l'opportunità di colmare autonomamente le inadempienze giuridiche (il protagonista ha un legittimo desiderio di rivalsa ma lo espleta nella maniera più condannabile), il modo in cui si giunge ad una conclusione lascia esterrefatti.

Lungi dal voler porre degli interrogativi e mettere in dubbio le convinzioni dello spettatore medio sulla necessità di rispettare l'ordinamento o la possibilità di colmarlo autonomamente, Giustizia Privata mette in scena un folle che esagera sotto tutti i punti di vista in preda al furore vendicativo, di fatto rendendo la sua parabola simile a quella di un deviato e non più paradigmatica di un individuo esasperato. Non c'è un'idea vera e paradossalmente rivoluzionaria dietro l'agire del protagonista, più un piano da cattivo dei fumetti, privo quindi del fascino di chi dà l’impressione di essere inarrestabile ma colmo del ridicolo di chi dovrebbe esserlo davvero.

Wednesday, November 28, 2007

The Kingdom (id., 2007)di Peter Berg

Il Vietnam portò ad una lunga serie di film poi diventati capisaldi del cinema perchè il periodo dell'elaborazione di quella guerra fortunosamente coincise con quello della new hollywood. E' stato circa ad un decennio dall'inizio di quella guerra che si è cominciato a pensare ad elaborarla per immagini e con il tempo sono sorti dei topoi di quel tipo di film di guerra.

Ecco da un po' di tempo è cominciata l'elaborazione del conflitto musulmano (per usare una parola che generalizzi a sufficienza) da parte degli americani e si è andato formando un nuovo genere di film bellico, che si distacca da quanto fatto fino ad ora in materia.
Difficile a memoria andare a guardare quale ne sia stato il capostipite, tuttavia ad oggi mi sembra che The Kingdom sia l'esponente più valevole di questa nuova categoria che personalmente non mi esalta molto.
Si tratta di un cinema di guerra molto strettamente correlato con il cinema politico e di spionaggio. Ad una guerra di posizione e molto mediatica sta cominciando a corrispondere un modo di rappresentarla molto "politico" e mediato (di cui con tutta probabilità Redacted sarà la punta), non tanto per come i film siano schierati ma per come scelgano di raccontare le storie.

Un esempio su tutti: il cinema hollywoodiano raramente utilizza la camera a mano, nei film di questo tipo invece sempre, per Hollywood la camera a mano è sinonimo di massimo realismo e la applicano quasi unicamente al cinema di guerra mediorientale. E' poi sempre presente un conflitto di culture come non c'era in Vietnam (dove il nemico era presente e vivo ma culturalmente lontano anni luce) e soprattutto sono presenti sempre piani e complotti superiori ai singoli protagonisti.
In Vietnam c'era l'uomo contro la natura, l'angheria degli ufficiali e l'ingiustizia di una guerra che manda i ragazzi a morire senza sapere perchè (oltre poi a tutto il tema del reducismo che sarà oggetto di un altro post). Qui invece c'è il tema delle grandi nazioni, tutto si sposta ad un livello superiore, c'è meno azione e più burocrazia, più protocollo e realismo che astrazione poetica.

In particolare The Kingdom mostra a tratti dell'ottima azione e un po' di suspence, pur avendo quei difetti che io sopporto poco. Potrei sostanzialmente riunirli tutti sotto l'etichetta "intrigo politico". Un modo un po' semplice e al tempo stesso confuso di mettere in scena i grandi movimenti internazionali e le macchinazioni dietro questa guerra attraverso i contrasti dei piccoli uomini.