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Tuesday, October 5, 2010

La solitudine dei numeri primi (2010)di Saverio Costanzo

Ecco io allora ve lo dico. A me La solitudine dei numeri primi è proprio piaciuto. Se n'è parlato malissimo in lungo e in largo e il film ha anche incassato decisamente sotto le aspettative, cosa che faceva presagire il peggio. Non solo. Dopo un attento studio (su Wikipedia) della storia com'era narrata nel libro è evidente che sono stati saltati passaggi fondamentali per la definizione dei personaggi (perchè non viene spiegato che fine fanno le foto del matrimonio?), che è stato allungato il brodo in momenti che forse meritavano maggior asciuttezza (per l'appunto la fase del matrimonio a tre quarti film) e soprattutto che il finale (quasi doppio per come sembra finire una volta e poi continuare dopo il nero) è lungo e non richiesto. Ma viva la faccia!

Film imperfetto, ridondante e spesso un po' prolisso La solitudine dei numeri primi (ma non sono più "primi" se avete cambiato la storia in questa maniera!!) è di gran lunga il miglior film italiano passato a Venezia. Il suo passo, le sue idee visive, il controllo che Saverio Costanzo ha di una storia che sceglie di articolare andando continuamente avanti e indietro nel tempo, sono da applausi.
Se si fa fatica a seguire la trama (perchè entrambi i padri negli anni '80 devono avere i baffi complicando tutto?? Perchè la protagonista da adolescente somiglia alla sorella del protagonista da bambina??) non si fa certo fatica a venire colpiti dalle emozioni, che anzi pescano nel bacino più recondito delle sensazioni ancestrali. Non sono mai le parole a parlare in La solitudine dei numeri primi ma le immagini, e non sono nemmeno le immagini in sè a parlare, ma il loro complesso, ovvero la loro articolazione secondo una struttura drammaturgica ben studiata. Che poi sarebbe il cinema, ma che sappiamo non essere la regola. Specie nel nostro di cinema.

Al caos narrativo dato da un adattamento decisamente non felice della trama del libro fa da contraltare un profluvio di idee di messa in scena mai banali e decisamente non comuni. Riprendere l'infanzia con toni da cinema horror anni '70, soffermarsi su elementi espressivi significativi di una generazione come i tragici cartoni giapponesi (peccato siano stati ridisegnati per l'occasione), adottare un filtro che non disdegna di sporcarsi le mani con il melò quando serve (operando un salto linguistico a partire dall'horror che ha del sublime per come è delicato), al fine di raccontare la storia di due autentici e non comuni disperati è non solo audace ma anche funzionante!
Quand'è l'ultima volta che vi siete commossi perchè della musica pop (per di più anni '80!) sale nel momento in cui ai due protagonisti, ormai sul fondo del barile, forse viene data una speranza di felicità conquistata con foga in un momento puntuale? Ecco a me era da tanto che non capitava.
Saverio Costanzo è migliore di tanti, tantissimi nostri altri autori che magari fanno film meglio riusciti perchè ha capito, in ultima analisi, a che serve questa cosa che chiamiamo cinema, come lo si usa e per quale finalità. E ha l'audacia di marciare a grandi falcate verso quello scopo. Che poi qualche film possa avere dei difetti passa in secondo piano.

Friday, April 30, 2010

Cosa voglio di più (2010)di Silvio Soldini

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Togliendo rapidamente qualsiasi dubbio lo scrivo subito: Cosa voglio di più racconta la solita storia, uomo e donna, sistemati affettivamente e familiarmente che si incontrano e scoprono una passione che li spingerebbe a mollare tutto per ricominciare un'altra vita insieme.
Tuttavia, se dovessimo fare piazza pulita di tutte le storie di questo tipo che debordano dalla fucina creativa (??) del cinema italiano per lasciarne uno solo l'anno, questa dovrebbe essere la prescelta dell'annata.

Al contrario di molti altri Soldini ci tiene realmente a fare questo racconto e ha una chiara visione di cosa significhi quel sentimento che arriva in quel contesto socio-economico. Molto si è parlato del film come "l'amore al tempo della crisi" ma è un po' più questo, perchè se lo sfondo quello è, è anche vero che i protagonisti di loro non si trovano in situazioni economicamente invidiabili e quindi una storia simile si sarebbe potuta verificare in qualsiasi altro momento storico. E' semmai il pubblico di oggi che guardandola trae determinate conclusioni sulla propria esistenza attuale.
Inoltre Cosa voglio di più non è nemmeno un film sull'amore o sui sentimenti ma sulla volontà umana e l'opportunità di compiere delle scelte per la propria esistenza.

Cosa voglio di più è un film molto schematico, si occupa prima del personaggio di Alba Rohrwacher, poi di quello di Favino e poi di tutti e due insieme. Mostra i controcampi del tradimento e più che cercare di mettere in scena l'azione del tradire (che per dire è ciò che appassiona Muccino, quanto il tradimento somigli ad un thriller) mostra il movimento interiore che il desiderio di un'altra vita scatena.
Essendo cineasta serio, Soldini per raggiungere l'obiettivo non usa solo i dialoghi (come sempre nei suoi film molto accattivanti) ma soprattutto i suoni, le immagini, il panorama di periferia milanese e i corpi dei due personaggi, da cui le molte scene di nudo che hanno attirato l'attenzione della stampa svogliata e che in realtà sono davvero interessanti.

C'è un momento in cui tutto è più lampante che nel resto del film, quando Anna (Alba Rohrwacher) è ad una lezione serale di pittura, un momento connotato con infamità da colori, ambiente, corpi presenti e tono delle immagini, ad un certo punto sentiamo un tonfo basso, profondo, simile ad un battito di cuore amplificato e Anna ha un sussulto come se il rumore venisse da dentro di lei, il controcampo mostra che sono due amanti che baciandosi sbattono contro la vetrina, il campo mostra Alba che capisce cosa dovrà fare.

Friday, March 19, 2010

Io sono l'amore (2010)di Luca Guadagnino

POSTATO SU
Il nuovo film di Luca Guadagnino era passato a Venezia nella sezione Orizzonti, alcuni l'avevano visto e quasi tutti ne avevano parlato bene. Quello che avevano tralasciato di specificare è che è fenomenale.

Si racconta di una famiglia di altissimo livello economico, i Recchi, magnati di non è chiaro quale settore, comunque titolari di un'azienda gigante a gestione familiare con ramificazioni in altri stati. I Recchi vivono tutti in un unico palazzo al centro di Milano, una casa d'altri tempi e del resto loro stessi sono una famiglia d'altri tempi, raccontata con toni d'altri tempi, tanto che fino alla comparsa della prima automobile si fa fatica a capire quando sia ambientata la storia.
La trama ripropone il mito della donna sofisticata che riscopre il lato passionale della propria vita attraverso la conoscenza di un uomo rude ma raffinato, ma non è su quello che si misura la forza di un film come Io sono l'amore. Guadagnino in ogni momento cerca percorsi diversi dal solito, procede per sineddoche concentrandosi sui particolari e ammassa temi diversi (tradizione, modernità, esterofilia, omosessualità, conservatorismo ecc. ecc.) cercando un linguaggio cinematografico altissimo e al tempo stesso fondato su presupposti narrativi commerciali (il climax, l'intreccio forte, i segreti che si svelano).

Scandito in tre capitoli (Milano, Londra, Sanremo) il percorso di liberazione della protagonista dalla gabbia che aveva costruito per sè è anche un percorso nella sensorialità di paesaggi naturali contrapposti alle città e pietanze raffinate.
Soprattutto Io sono l'amore fa continuamente quello che non ti aspetti, affronta gli eventi e i personaggi con un taglio inaspettato e una vena melodrammatica che non stona nemmeno nel grande crescendo finale, quando la musica sempre più imponente arriva a sovrastare le parole. Ma va bene così.

Ne esce un film di dettagli, girato vicinissimo agli attori (Tilda Swinton produce anche)e fondato su particolari rivelatori, capelli raccolti, pietanze che comunicano come fanno i corpi di La promessa dell'assassino e pensieri che prendono forma come in un film di Lynch. Verrebbe da dire che c'è troppa carne al fuoco per un solo film se non fosse che tutta questa carne poi è gestita con pugno fermo e rigore per non risultare indigesta. E non lo risulta.