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Monday, February 21, 2011

Shelter (id., 2010)di Mans Marlind e Bjorn Stein

POSTATO SU
Lo sdoppiamento di personalità non esiste se non nei film, decenni di cinema hollywoodiano ci hanno convinti che sia una patologia, ma in realtà non è vero. Inizia così Shelter, con questa dichiarazione da parte della dottoressa Julianne Moore, impegnata a smascherare un caso di doppia personalità all'interno di un processo.
Il cinema che smentisce il cinema ed espone le proprie truffe, un inizio che sembrava promettere tante cose a partire da una dichiarazione programmatica di consapevolezza. Invece è un fuoco di paglia e tutto si perde in un attimo.

In pochi minuti infatti la dottoressa verrà smentita, sarà il padre a mostrarle un caso di sdoppiamento talmente clamoroso ed evidente da mettere in crisi le sue certezze. Peccato che questo caso la trascinerà in un vortice di eventi rischiosissimi che affondano le radici (e te pareva!) nel paranormale.
Julianne Moore, che ritiene Rosemary's Baby uno dei suoi film preferiti di sempre, si impegna e non poco nel folle tentativo di dare vita ad una delle trame meno plausibili di sempre e soprattutto meno interessanti. L'idea del cinema in lotta con il cinema per l'affermazione di una falsa verità si perde immediatamente, come anche tutto il fascino del concetto di personalità multipla (più persone in una, più ruoli in un attore). Il fine qui sono quei colpi dati allo spettatore attraverso "il botto", cioè la scena in cui il volume si impenna.

Il duo svedese Marlind e Stein (già messi a capo del quarto capitolo di Underworld) dirige all'americana senza personalismi. La cosa potrebbe anche giovare al film, non fosse che la mancanza di personalismo sfocia in un'aderenza senza testa a tutte le logiche del peggior horror, quello che non suggestiona raccontando una storia da brivido ma mira a spaventare col frastuono e le mostruosità.

Tuesday, March 16, 2010

Chloe (id., 2010)di Atom Egoyan

POSTATO SU
Amanda Seyfried contrapposta a Julianne Moore, tradizione e stranezza, due modelli di bellezza che sono nel film due modelli di vita e di etica. Atom Egoyan su questo sembra incastrarsi, su come l'etica e i valori siano opinabili e impossibili da conoscere realmente tanto quanto gli accadimenti.

C'è una moglie, bella ma non più giovanissima (Moore) che sospetta che il marito, la cui bellezza aumenta di anno in anno (Liam Neeson) la tradisca con qualche giovane studentessa. Rosa dai dubbi chiede ad una prostituta dal fascino giovanile (Seyfried) di far finta di mostrare il fianco casualmente ad un abbordaggio del marito. Per vedere come si comporta.
Pessimo errore.

Tra interni di una borghesia altissima e raffinata fino all'eccesso, fino cioè alla spersonalizzazione e alla dispersione umana (la casa gigante e trasparente che paradossalmente nasconde invece di mostrare) ed esterni ruvidi fatti di orti botanici e caffeterie, i tre personaggi si muovono per lo più fuoriscena. Tutti i momenti topici sono raccontati e dunque filtrati dal giudizio e dal punto di vista del personaggio che li narra, mentre gli alterchi, le litigate e le discussioni avvengono davanti allo spettatore senza mediazione alcuna che non sia del regista. L'obiettivo è spiazzare dire cose che forse sono vere e forse no per affermare che verità non ce ne sono mai.

Atom Egoyan trova una strada tra ossessioni comuni e avvincenti anche per lo spettatore meno intellettualmente esigente e suggestioni alte (pure troppo), per accontentare con stile le due anime del pubblico. Dà un colpo al cerchio e uno alla botte tenendosi a metà strada tra il genere, l'azione e i colpi di scena di Attrazione fatale e le rarefatte atmosfere del cinema sentimentale europeo. Il risultato non brilla da nessuna parte ma è indubbiamente riuscito. Forse l'azione non fa per lui ma il dramma da camera sicuramente.

Sunday, June 22, 2008

Lontano Dal Paradiso (Far From Heaven, 2002)di Todd Haynes

Di Todd Haynes per una serie di casualità non conoscevo nulla prima di Io Non Sono Qui, avevo perso sia Velvet Goldmine che Lontano Dal Paradiso all'epoca della loro uscita e mai recuperati.
Inutile dire che dopo la visione del capolavoro dylaniano si è imposta la visione dei precedenti exploit non appena mi fosse stato possibile.

Lontano Dal Paradiso è quello che avevo letto e ancora di più: un esercizio di stile pauroso con dietro una visione e una conoscenza cinematografica profondissima (conoscenza del passato e della tecnica), ma anche un fenomenale film a se stante.
Haynes non parte tanto da Sirk, ma dagli anni '50 e dalla realtà dell'epoca per farne un ritratto più obiettivo di quello che si poteva evincere dal cinema dell'epoca. Per fare questo utilizza quel filtro, cioè utilizza il modo in cui chi non ha vissuto quegli anni li vede, l'immagine mediatica che ne abbiamo tutti quanti e che ci viene dal cinema, dalla televisione e dalle foto d'epoca. A questa però aggiunge dei tocchi di realismo all'epoca impensabili.

E' fenomenale l'equilibrio tra passato e moderno, frutto di scelte davvero altissime.Trama moderna su scenografie passate, movimenti di macchina assolutamente moderni su fotografia che guarda indietro con i suoi colori usati in chiave espressionista, recitazione moderna su movenze passate (si baciano solo a stampo), situazioni passate per intrecci moderni, ritmo passato e dialoghi moderni... E si potrebbe continuare a lungo.

Ma come dicevo goduria cinefila e tecnica a parte (ma che piacere che da però...), Lontano Dal Paradiso fa anche un suo discorso autonomo non tanto sul razzismo negli anni '50, quanto sulla solitudine umana e l'alienazione della vita borghese dell'epoca. Proprio come i melodrammoni dell'epoca il tema messo in primo piano è uno (anzi in questo caso due: razzismo e omosessualità), ma sotto, mentre tutti sono distratti a pensare al razzismo, passano altri significati, passa una visione di mondo che cozza con i colori brillanti di Edward Lachman fatta di terribile solitudine, una visione cinica del mondo in cui nessuno a nulla e alla fine nulla si può risolvere perchè la società intesa come aggregato di esseri umani dal quale ognuno può trarre vantaggio semplicemente non esiste.

Opera coltissima che cerca il consenso popolare senza tuttavia abbassarsi a dare al pubblico quello che vuole ma solo proponendo diversi livelli di lettura. Chi li vuole leggere poi lo fa e chi non vuole non lo fa.

Tuesday, April 1, 2008

Next (id., 2007)di Lee Tamahori

POSTATO SU

Nei decenni sono diventati innumerevoli gli adattamenti di opere o anche semplici racconti di Philip Dick, ma forse Next è davvero il più brutto, il più povero e quello che più di tutti svilisce la complessità e la ricchezza di spunti e significati delle opere dickiane.
Non bisogna farsi trarre in inganno dal fascino della storia, dalla particolarità del personaggio e dal modo in cui è trattato il tema della preveggenza, quello è Dick.
Ciò a cui bisogna guardare è come è articolata la storia, come sono approfonditi i personaggi, che relazioni stringono tra di loro e come tutto questo è raccontato allo spettatore. E se si guarda a questo lo scenario è di una povertà disarmante.

Sembra che l'impegno non sia profuso in nessuna direzione se non quella di rendere spettacolarmente la capacità percettiva extra-sensoriale del protagonista, quando quella capacità dovrebbe essere solo l'inizio, il propellente della trama, perchè incentrare un film sulla capacità di prevedere non è in sè più interessante che incentrarlo sullo scorrere eterno del vento. E' ciò che farai a partire da questo spunto che determinerà il film.

In Next ciò che avviene a partire dall'illustrazione del personaggio, delle sue capacità e di come le eserciti è una picchiata continua fatta di amori eterni, destini segnati, dialoghi in cui continuamente viene fatto il riassunto della trama e delle intenzioni di ogni ruolo più un po' di poeticità data da sguardi rivolti nel vuoto e violini di sottofondo con una leggera brezza che scuote i capelli. Null'altro.
E il colpo di scena finale è di una pochezza tale da far cadere le braccia.