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Tuesday, March 29, 2011

Boris - Il film (2011)di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo

POSTATO SU
Siamo di fronte forse all'unico caso in cui il passaggio di una serie televisiva al grande schermo ha senso a priori, prima ancora di leggere la sceneggiatura. Il passo successivo di una serie che parlare del fare serialità in Italia non può essere infatti altro se non un film che parla di fare cinema in Italia.
Il risultato è in linea con tutto ciò: Boris - Il film è molto simile a Boris - La serie, ne è figlio, ne ha lo stile, ne ha la comicità (irresistibile, non solo verbale e devastante) e ne costituisce (in linea di massima) una puntatona. La cosa solitamente è indicata come un male, in questo caso invece è ontologicamente inevitabile. Boris è l'eccezione.

Se dunque il film è pieno di colpi diretti al suo pubblico affezionato, ammiccate, citazioni, tormentoni, riproposizioni di eterne dinamiche e via dicendo, è anche qualcosa che da noi non si è mai fatto, cioè un film sul fare film lontano dalla poesia del tutto (cioè dal filone Sogni D'Oro, Il Caimano e via dicendo) e calato nel set e nell'industria. Fare cinema non come arte alta ma come lavoro basso, una dimensione, la seconda, che nella realtà è quantitativamente superiore alla prima.
E' paradossalmente un'idea uguale e contraria ad Effetto Notte di Truffaut, il film che rappresenta le due linee guida teoriche del regista francese, ovvero girare film come lavoro fatto per vivere e il mondo del cinema come microcosmo bello in sè, a prescindere dal risultato).

Non c'è nessuna poesia nel cinema di Boris e nonostante si ripropongano molti momenti da Effetto Notte (l'attrice chiusa in camerino che blocca la produzione, quella che non riesce a dire le battute e il regista che deve inventare una soluzione, la storia d'amore sul set, il sesso clandestino, il tono da commedia che arriva a salvare tutto....) qui sono totalmente ribaltati. Fare cinema è sempre brutto anche quando può essere bello (i produttori si ritrovano per la mani i diritti per trasporre La Casta e ne esce un cinepanettone), il lavoro sul set non è un macchina che migliora le idee di partenza ma le rovina e più il cinema entra prepotente più lo schifo avanza. Chi lavora ai film è gente terribile, dal primo all'ultimo e il lavoro del filmmaker è il peggiore possibile.

Certo la lettura non è scevra da un certo vittimismo (è sempre colpa degli altri e del sistema) nè di una visione un po' stereotipica e facilona delle cose (i cinepanettoni per come li rappresentano non esistono più da una decina d'anni e sono la sentina d'ogni male). E' innegabile però che Boris racconti ottimamente il rovescio della medaglia truffautiana, se esiste un cinema bello a prescindere ne esiste anche un altro brutto in ogni caso, che bello non sarà mai nè potrà essere salvato da nulla, nemmeno dalla commedia.

Tuesday, April 21, 2009

Generazione Mille Euro (2009)di Massimo Venier

POSTATO SU
Da tempi di crisi arrivano film che questa crisi la raccontano e Generazione Mille Euro nello specifico si occupa di tutta quella fascia di ragazzi al primo lavoro che non riescono a superare la soglia dei 1.000€, che non hanno certezze, non hanno un contratto che non sia a progetto e che per questi motivi di inquietudine non riescono spesso ad avere il coraggio anche solo di tentare di inseguire i sogni.

Il film di Massimo Venier tratto dal racconto di Incorvaia e Rimassa e sceneggiato particolarmente bene dall'autore con Federica Pontremoli racconta proprio di questo: di un ragazzo che lavora senza garanzie in una società di telecomunicazioni ma che è laureato in matematica e adora lavorare all'università, tuttavia precariato e esigenze lo costringono ad una posizione e un lavoro che non tollera senza tuttavia dargli anche sicurezze economiche. Similmente incontrerà due donne, una sul lavoro decisamente in carriera e pronta a "raccomandarlo", un'altra in casa più dimessa ma pronta ad inseguire i propri sogni. La scelta di vita sarà anche una scelta tra le due.

Tutto questo Venier lo racconta con una bravura e un'abilità assolutamente mai riscontrate nei precedenti lavori. Se la storia ha uno svolgimento canonico e a tratti un po' ruffiano (corse, musica pop e fascino adolescenziale) la forma con cui è raccontata è di prim'ordine!
Assieme Italo Petriccione (direttore della fotografia di fiducia di Salvatores) elabora un mood visivo per il film molto algido, compie scelte forti e coerenti su come riprendere la città (sempre spersonalizzata e condita di palazzoni), come riprendere gli interni e gli esterni (con tutti toni di grigio) e soprattutto su come riprendere i protagonisti (in esterno quasi sempre da lontano e con un forte zoom in modo da schiacciarli contro il paesaggio urbano).
Tutto insieme questo genera una sensazione di indeterminata prigionia in perfetta armonia con i contenuti del film. La forma esalta il contenuto, prendendo uno svolgimento ordinario e rendendolo in una parola: efficace.
E questo da solo è il segnale migliore che si potesse avere per un cinema come il nostro spesso poco attento alla forma (ma per fortuna questo è sempre meno vero).

Interessante infine il bellissimo umanesimo che pervade la pellicola. Cercando di dribblare quanto più possibile il buonismo Venier approda davvero ad una solidarietà civile che storicamente non appartiene molto al nostro cinema "di crisi". Solitamente i nostri film erano molto pessimisti sulle possibilità di aiuto e compassione da parte della società (oltre che da parte delle istituzioni) mentre qui, con approccio da Frank Capra, le persone si fanno forza e si aiutano a vicenda anche senza conoscersi. C'è uno spirito non rassegnato ma anzi pieno di ottimismo ragionato (e non dissennato) che è difficile non applaudire.

Tuesday, February 12, 2008

Parlami D'Amore (2008)di Silvio Muccino

POSTATO SU
Per questo film occorre fermarsi un attimo. Non siamo di fronte a Moccia, a Neri Parenti o ad un qualsiasi altro espediente commercial-cinematografico. Il film di Silvio Muccino vuole con tutte le sue forze essere cinema alto, altissimo, vuole in ogni momento essere il miglior cinema immaginabile (anzi immaginato), non vuole fare risultato al botteghino ma commuovere tutto e tutti e non è neanche furbo. Parlami D'Amore in sostanza pretende e non raccoglie.
Vale allora la pena spendere due parole, perchè le professionalità coinvolte e la cura nella realizzazione non sono sbrigative e da quattro soldi, come capita solitamente per il cinema facile che cerca i molti incassi, qui è stato fatto un lavoro meticoloso e probabilmente anche faticoso, si sono spesi soldi e si sono cercati bravi attori ma senza la minima coscienza di cinema vero. E' a priori, prima di iniziare a girare che il film ha preso una piega da condannare.
Perchè di cinema ce n'è molto nel film di Muccino. Di cinefilia spicciola, di citazioni geografiche improbabili, frasi da romanzo harmony, controluce, scene madre e attente colorazioni la pellicola trabocca in ogni momento. Ma a mancare è una vera e autentica idea di cinema.
Quello che si vede da questo film è che il cinema per Silvio Muccino è il livello più superficiale dei grandi capolavori, è cercare di colpire lo spettatore nella maniera più diretta e scontata possibile. Non ci sono allusioni, non ci sono rimandi e non c'è rispetto, c'è la ferma volontà di essere poetico e di esserlo a tutti i costi in ogni scena. "Non puoi avere un film di scene madri" dice un vecchio adagio hollywoodiano, perchè il cinema è costruzione attenta, è racconto bilanciato anche quando è pronto ad esplodere in determinati momenti. Ecco Muccino tutto questo lo ignora per raggiungere tutto e subito.
E allora il suo personaggio non fa il restauratore ma "riporta in vita il legno", vive a torso nudo in una casa sfatta ma con dentro un pianoforte a coda, è povero ma pieno d'amore e sensibilità, si aggira solo quando piove e senza ombrello, vive di stenti ma gioca a poker (vincendo solo perchè gli entrano i punti non perchè sia abile), è innamorato della stessa ragazza da quando ha 8 anni ma non la conosce, parla solo d'amore e passa da una reazione passionale all'altra. Il risultato è chiaramente esilarante ma solo se non si pensa che il film è stato riconosciuto di interesse culturale dal Ministero (cosa incautamente sbandierata con un grosso cartello ad inizio film).
Non è cinema da quattro soldi questo, è cinema stupido. Vorrebbe essere cinema di forti passioni che mette lo spettatore di fronte ad un simulacro delle emozioni umane ma in realtà si avvicina all'orecchio di chi è in sala e urla fortissimo presupponendo che più urla, più accumula sentimentalismo spiccioli e figure retoriche emotive (la pioggia contro il vetro retroilluminato mentre una donna seminuda, ma con i tacchi alti e con i capelli bagnati suona il pianoforte), più lo spettatore si emozionerà.