E' un brutto film. Diciamolo subito. Brutto e lungo (che è peggio!). Ma la cosa più importante è che Karate Kid - La leggenda continua non ha davvero nulla a che vedere con Karate Kid - Per vincere domani, se non per una macroorganizzazione della storia. Si racconta di una persona che arrivata in un posto nuovo, incontra una ragazza di diversa estrazione, ha difficoltà con i bulli, incontra un maestro di arti marziali che lo aiuta, si iscrive ad un torneo per dimostrare ai bulli quello che vale, si allena e alla fine vince.
Il punto però è che Karate Kid con Noriyuki "Pat" Morita e Ralph Macchio era uno dei moltissimi film sul disagio adolescenziale che si facevano negli anni '80 e si differenziava dagli altri giusto per la scelta di risolvere quel disagio attraverso una blanda riproposizione della filosofia di vita nipponica. A fare da intrattenimento poi c'erano l'allenamento e la scalata al successo (e alla rivincita) di un perdente.
La sua forza stava nel modo in cui il disagio adolescenziale era messo in scena, Daniel era uno dei tanti personaggi del cinema giovanile anni '80 che funzionava (e benissimo) grazie ad una scrittura molto abile (il suo contesto di provenienza a partire dalla madre e la sua macchina era perfetto) e una regia invisibile e funzionale del maestro del cinema sportivo John G. Avildsen (quello a cui fu affidato Rocky, per dire). Il karate alla fine, contava poco ed era più che altro un McGuffin abilmente mascherato da Pat Morita.
Qui manca tutto. Karate Kid - La leggenda continua non si cura del fatto di essere un film con al centro il kung fu e avere nel titolo la parola "karate", abbassa l'età del protagonista e pretende di parlare (senza convinzione) del disagio di un bambino di 10 anni, introduce personaggi che non sviluppa, fa accadere cose che non spiega e pretende che una musichetta generi un sentimento per riflesso condizionato! In più nelle sue più di due ore di durata vuole anche essere un modo di illustrare la Cina moderna, dalla muraglia cinese (sulla quale si allenano. Rendiamoci conto!) agli stadi delle Olimpiadi.
C'è poi un che di puramente cinese nel mostrare bambini di 10 anni che si prendono a pugni e calci in faccia, anche ripetutamente, e poi piangono dal dolore senza che nessuno li consoli ma anzi considerandolo parte della manifestazione sportiva.
Infine Jackie Chan, persona che qui si stima oltre ogni dire, e che regala una sequenza delle sue (ma in versione edulcorata, facilitata e mal diretta, quindi inutile), tenta qualche risvolto drammatico (triste solo se si pensa alla sua carriera) e anche un minuscolo barlume di metacinema quando, insegnando al bambino i primi rudimenti, sembra insegnargli le "sue" arti marziali, quelle del mondo dello spettacolo nelle quali alla mossa si accompagna l'espressione. Poca roba.
Il punto però è che Karate Kid con Noriyuki "Pat" Morita e Ralph Macchio era uno dei moltissimi film sul disagio adolescenziale che si facevano negli anni '80 e si differenziava dagli altri giusto per la scelta di risolvere quel disagio attraverso una blanda riproposizione della filosofia di vita nipponica. A fare da intrattenimento poi c'erano l'allenamento e la scalata al successo (e alla rivincita) di un perdente.
La sua forza stava nel modo in cui il disagio adolescenziale era messo in scena, Daniel era uno dei tanti personaggi del cinema giovanile anni '80 che funzionava (e benissimo) grazie ad una scrittura molto abile (il suo contesto di provenienza a partire dalla madre e la sua macchina era perfetto) e una regia invisibile e funzionale del maestro del cinema sportivo John G. Avildsen (quello a cui fu affidato Rocky, per dire). Il karate alla fine, contava poco ed era più che altro un McGuffin abilmente mascherato da Pat Morita.
Qui manca tutto. Karate Kid - La leggenda continua non si cura del fatto di essere un film con al centro il kung fu e avere nel titolo la parola "karate", abbassa l'età del protagonista e pretende di parlare (senza convinzione) del disagio di un bambino di 10 anni, introduce personaggi che non sviluppa, fa accadere cose che non spiega e pretende che una musichetta generi un sentimento per riflesso condizionato! In più nelle sue più di due ore di durata vuole anche essere un modo di illustrare la Cina moderna, dalla muraglia cinese (sulla quale si allenano. Rendiamoci conto!) agli stadi delle Olimpiadi.
C'è poi un che di puramente cinese nel mostrare bambini di 10 anni che si prendono a pugni e calci in faccia, anche ripetutamente, e poi piangono dal dolore senza che nessuno li consoli ma anzi considerandolo parte della manifestazione sportiva.
Infine Jackie Chan, persona che qui si stima oltre ogni dire, e che regala una sequenza delle sue (ma in versione edulcorata, facilitata e mal diretta, quindi inutile), tenta qualche risvolto drammatico (triste solo se si pensa alla sua carriera) e anche un minuscolo barlume di metacinema quando, insegnando al bambino i primi rudimenti, sembra insegnargli le "sue" arti marziali, quelle del mondo dello spettacolo nelle quali alla mossa si accompagna l'espressione. Poca roba.
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